Oggi è una di quelle giornate dal chiodo fisso. Il
mio chiodo fisso di oggi è quello della scelta.
Nella mia professione, accanto a donne, madri, padri,
famiglie, mi capita quotidianamente di parlare di scelte, proporre alternative,
valutare strade, e cercare di guidare e condurre per mano nel modo più neutrale
possibile, limitandomi a fornire informazioni, e provando insieme a chi mi sta
di fronte a setacciare le possibilità e ricercare la scelta migliore per
loro in quel momento, quella che magari non andrebbe assolutamente bene
per un'altra coppia, ma che per loro sembra essere proprio speciale. Perché
possano avere la loro chance per essere felici. Perché possano veramente
sentirsi attivi e viversi, partecipi e consapevoli, nel percorso di diventare
genitori.
Nella vita di ogni giorno, tutti noi ci troviamo di
fronte a delle scelte: facili, difficili, impossibili, interessanti, pessime,
invidiabili, inevitabili.
Nella mia piccola vita da ostetrica, mi sono trovata
nelle condizioni di fare piccole grandi scelte, insieme professionali e di
vita.
Oggi io sono una libera professionista. In realtà, è
quello che sono sempre stata, fin da subito, dopo la laurea, dopo l'Africa.
Per me, e solo per me, per il mio cuore e per la mia
testa, questo è il mio miglior modo possibile di essere ostetrica. Nel dire
questo, lungi da me qualsiasi tipo di giudizio. Non si tratta di fare
distinzioni, dare meriti o demeriti tra chi lavora come dipendente in ospedale
o in consultorio e chi svolge la libera professione. Si tratta di collaborare,
ognuno a modo proprio, ognuno secondo i propri canali e le proprie possibilità,
a rendere migliore il mondo dell'assistenza alla genitorialità. Ampliare le
possibilità, migliorare i servizi, ponendo al centro sempre la coppia e la
famiglia, il loro benessere, le loro scelte.
Ognuno deve essere prima di tutto onesto con se
stesso e seguire il proprio percorso, trovare la propria dimensione. E'
importante poter trovare una modalità, la propria
modalità che consenta ad ogni singola ostetrica di esprimersi al massimo e al
meglio, per essere quella meravigliosa compagna e guida che tutte le mamme, i
papà e i bambini vorrebbero incontrare.
Personalmente, la realtà ospedaliera non ha mai fatto
al caso mio. Già dal tirocinio universitario (che ho amato, e non ringrazierò
mai abbastanza l'ospedale San Gerardo di Monza e le sue ostetriche per quello
che ho imparato) sentivo che qualcosa non andava. Una sorta di feeling mal
riuscito, nonostante il buon rapporto con le ostetriche, il grande impegno e i
buoni risultati sul campo concretizzatisi in grandi felicità, soddisfazioni e
valutazioni delle tutor sempre positive.
La routine era la prima cosa che faticavo a
sopportare. Ed inevitabilmente, lavorando in una struttura, sia essa un
ospedale o un ufficio, la routine è importantissima, e va rispettata per
ottimizzare le risorse e migliorare la qualità. Io, però, non mi sentivo
padrona del mio tempo. Detestavo il mare di scartoffie ed obblighi burocratici
a cui badare, dal momento che questo sottraeva tempo ed energie a quello che
avrei voluto fare di più: stare con le mamme e i loro bambini.
Mi dispiaceva poi dover finire il turno e sapere che
se fossero stati dimessi durante un mio riposo, non avrei mai più saputo nulla
di loro. Mi sembrava così strano aver condiviso qualcosa di così grande e
bello, e finire inevitabilmente col perdersi per sempre, perdere nella mia
mente il suono della loro voce, l'immagine dei loro volti emozionati, il
profumo dolce del loro bambino. E sicuramente anche i loro nomi. Mi faceva
impazzire l'idea che, un giorno, camminando per il centro di Monza, avrei
potuto incontrarli, non riconoscerli, o magari fingere di non conoscerli, forse
per noia o per pigrizia. E viceversa.
Così, per tentare di ingannare la mia pessima
memoria, iniziai a tenere un piccolo registro segreto delle nascite che
assistevo. Provavo ad annotare tutto, comprese le mie emozioni. Ma scrivere in
maniera forzata, sotto "dettatura", fosse anche di me stessa, non è
da me. Non rendeva. Abbandonai il progetto poco dopo.
Di quelle nascite assistite, mi è rimasta sicuramente
l'esperienza, e l'emozione generale, confusa, di tutte, con qualche storia e
immagine particolare che spicca a caratteri più limpidi in mezzo alle altre.
La mia memoria è un flop totale. Ricordo bene quel
che devo fare, appuntamenti, promemoria e tutto, che quasi potrei non avere
un'agenda. Ricordo le cose che ho studiato e che mi aiutano nella professione.
Ricordo benissimo i testi delle canzoni e delle poesie. Non sono capace di
ricordare le date, e puntualmente dimentico il compleanno di qualcuno. In
realtà ricordo solo il mio, quello dei miei genitori, mio fratello, il mio
moroso. Fatico a ricordare gli eventi, i volti, le persone, i nomi. Anche le
esperienze più belle ed emozionanti, nella mia mente sono spesso destinate a
sbiadire, come i contorni di una foto di molto tempo fa. Gli avvenimenti si
confondono, i confini sfumano. Le storie reali, almeno per il tempo in cui le
vivo, voglio che siano totali. Totalmente piene, cariche, luminose. Non mi
piace accontentarmi. I ricordi si affievolirebbero ancor prima.
La mia memoria è un flop totale, ma c’è un luogo nel
mondo che sembra essere immune alla sua corrosione: l’Africa, la casa delle
esperienze più forti ed accecanti.
Dopo altri due periodi di volontariato, conseguita la
laurea, a gennaio finalmente partii realizzando il sogno di una vita: fare
l’ostetrica in Africa. Per la precisione, tornai ancora una volta in Kenya,
accompagnata da due colleghe con cui avevo condiviso il duro periodo degli
studi universitari.
Dal punto di vista professionale, e non solo,
l’Africa mi ha posto di fronte ad un grande bivio. A pochi giorni dalla
conclusione del terzo mese di permanenza, mentre ci apprestavamo a vivere
l’ultimo, intenso periodo di lavoro, arrivò la chiamata che segnò il nostro
destino. Per un’inspiegabile ragione, nonostante le raccomandazioni di non
considerare la nostra presenza prima della data del nostro effettivo rientro in
Italia, fummo contattate dall’ospedale per coprire un posto di lavoro a tempo
determinato. La prima a cui toccò la patata bollente fui io, poiché più in alto
in graduatoria delle tre. Chiamarono il 6 aprile, giorno della vigilia del mio
compleanno. Mi sembrava un complotto, una beffa, un assurdo e quanto mai
perfido scherzo del destino. Il giorno prima dei festeggiamenti mi si poneva di
fronte alla scelta di abbandonare il progetto di quello che era, per me, il
sogno di una vita intera, un qualcosa, un desiderio o un richiamo le cui
origini nemmeno mia madre ricorda, in cambio di un ambito posto di lavoro che
mi avrebbe permesso per molti mesi di fare esperienza, imparare, guadagnare.
Avevo ventiquattro ore di tempo per decidere. Già, perché non presi subito la
decisione.
Passai ventiquattro ore a parlare da sola, delirare,
imprecare, cercare consiglio e rifugio in mia madre e in mio padre, con la
sensazione di avere una bomba sotto al culo, pronta ad esplodere al minimo
cenno di insicurezza.
Dopodiché, decisi. O meglio, con l’aiuto da casa,
trovai il coraggio per rendere nota la mia decisione, metterla nero su bianco,
e comunicarla all’ospedale. Rifiutai quel posto di lavoro. Non volevo andarmene
e abbandonare il lavoro che avevo da fare, non volevo lasciare l’Africa, non
volevo tradire il mio sogno, nonostante la partenza sarebbe stata di lì a un mese.
Mi sentivo sollevata. Mi sentivo un po’ folle,
probabilmente completamente incosciente. Ma ero felice. E del resto, mi dicevo,
non avevo una famiglia da mantenere, un lavoro l’avrei trovato comunque, prima
o poi.
E, diciamocelo, la voglia di accettare un posto di
lavoro in quell’ospedale che conoscevo già a menadito non era nulla di che.
Iniziai a chiedermi per quale motivo avessi fatto il colloquio prima di
partire.
Così, dopo la mia rinuncia, la palla rimbalzò
all’altra collega, che accettò di tornare in Italia.
Poco tempo dopo, per questioni personali, anche
l’altra collega decise di tornare prima del tempo, ed io rimasi sola, un po’
impaurita, delusa e amareggiata.
Tuttavia, fu solo col tempo, col passare dei giorni e
con il susseguirsi degli avvenimenti, che compresi che quella fu per me una
grandissima occasione di svolta.
Da sola, feci tantissime cose. Imparai molto,
sperimentai emozioni speciali, migliorai il mio swahili tutt’oggi ancora
elementare, ebbi occasione di fare lunghissime chiacchierate con le donne
keniote ricoverate nell’ospedale e con i colleghi locali. Mi fu data
l’occasione di vedere le cose da un altro punto di vista che prima, forse un
po’ naturalmente chiusa nel nostro cerchio di wazungu, di bianche, non avevo
avuto modo di considerare. Quel periodo fu il perfetto concludersi del cammino
percorso nei mesi precedenti. Avevo visto colori, conosciuto storie e vissuto
avventure non ripetibili, quasi non raccontabili. O per lo meno, non
interamente comunicabili. Avevo abbracciato persone uniche, avevo stretto mani
sagge e vissute. Avevo accolto alla vita bambini più leggeri di una piuma, dei
minuscoli pesciolini neri sanissimi. Avevo accompagnato alla morte cuccioli
bellissimi. Sembravano addormentati.
Il giorno della partenza, lasciando il St Orsola
Mission Hospital di Matiri, appena fuori dal suo pesante e grande cancello
verde, dal finestrino del pullman stracarico di gente sudata e bagagli,
guardavo la suora salutarmi, in lacrime. Piansi, sentendo il cuore distruggersi
in mille pezzi. In quel momento, capii che se fossi tornata in Italia per ricominciare
a fare quel che avevo fatto fino a prima della partenza, per giunta nel
medesimo ospedale, lo stesso di sempre, sarei certamente finita col soffocare.